Greenwashing, parte la stretta Ue grazie alla pubblicazione della Direttiva
12.04.2024 - TECNOLOGIA E PRODUZIONE
A partire dal 27 settembre 2026, l’adozione da parte di imprese e professionisti di comportamenti inclusi nella “black list” della nuova direttiva 2024/825/Ue sarà qualificata come “greenwashing“. Questa pratica consiste nel presentare prodotti o processi come più rispettosi dell’ambiente di quanto siano effettivamente. Il recente provvedimento, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Ue il 6 marzo 2024, introduce nel sistema legale dell’Unione Europea un elenco dettagliato di pratiche commerciali che gli Stati membri devono considerare “sempre sleali”, in quanto ingannevoli riguardo alle reali qualità ambientali dei beni o servizi promossi. La neo direttiva 2024/825/UE interviene inserendo figure specifiche di greenwashing negli elenchi della direttiva 2005/29/CE, che identificano le tipologie più comuni di pratiche commerciali ingannevoli. Questo intervento mira a alleggerire il carico probatorio sugli individui e le associazioni di tutela nelle opportune sedi.
L’intervento di maggiore rilevanza della direttiva 2024/825/UE si evidenzia attraverso:
- l’aggiunta di specifiche figure di “marketing ambientale” nell’allegato 1 alla direttiva 2005/29/CE, che elenca le pratiche commerciali “considerate in ogni caso sleali” sulla base di una presunzione legale, comunemente nota come “black list”;
- considerare condotta commerciale sleale per presunzione il formulare asserzioni ambientali complessive su prodotti o attività, ma che in realtà riguardano solo un aspetto specifico degli stessi. In questo contesto, vengono presi di mira gli slogan del tipo “realizzato con materiale riciclato” o “da fonti rinnovabili", che si rivelano veritieri solo in parte;
In particolare, si introducono nuove figure di condotta sleali quali:
- Dichiarazioni che possono trarre in inganno riguardo le qualità ambientali e la circolarità dei prodotti, come la loro durabilità, riparabilità o riciclabilità
- Asseverazioni sulle prestazioni ambientali future di beni e servizi che non possono essere verificate
- La promozione come vantaggi di elementi che in realtà sono irrilevanti, ad esempio, vantare l’assenza di plastica in fogli di carta.
Queste aggiunte mirano a proteggere i consumatori da messaggi fuorvianti e a promuovere una maggiore trasparenza nelle pratiche commerciali.
Prima di utilizzare un marchio di sostenibilità, l’azienda deve assicurarsi che questo rispetti criteri di trasparenza e affidabilità, verificabili attraverso controlli indipendenti conformi a standard internazionali come la norma ISO 17065. I marchi di sostenibilità pubblici, come quelli che attestano la conformità ai regolamenti (CE) n. 1221/2009 o (CE) n. 66/2010, sono esempi di loghi riconosciuti. Anche alcuni marchi di certificazione possono essere considerati come marchi di sostenibilità se promuovono aspetti ambientali o sociali, ma solo se rilasciati da autorità pubbliche o basati su sistemi di certificazione validi. Le norme volontarie per obbligazioni verdi e sostenibili non sono considerate marchi di sostenibilità secondo questa direttiva, poiché non sono primariamente rivolte agli investitori al dettaglio e sono regolate da leggi specifiche. È fondamentale che le autorità pubbliche facilitino l’accesso ai marchi di sostenibilità per le PMI, nel rispetto del diritto dell’Unione. Plausibilmente, l’adeguamento alle nuove regole europee in materia di pratiche commerciali scorrette avverrà mediante l’aggiornamento del decreto legislativo 206/2005, meglio conosciuto come “Codice del Consumo“. All’interno del Codice, le “pratiche commerciali sleali” definite a livello unionale saranno recepite come “pratiche commerciali scorrette”. Limitare il greenwashing e l’obsolescenza programmata rappresenta un vantaggio significativo sia per i consumatori che per l’ambiente.
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